Appendice de "La Libera Parola"
FRANCESCO MASTRI ANI
LA CIECA DI SORRENTO
ROMANZO
Ora, tu sarai mia.
Una lotta inaudita ebbe luogo.
Nei disperati sforzi Albina face
ve per difendersi, la bambina fu
precipitata dal letto, e cadde
piangendo.
La fanciulla strillava.
Allora il ladro, temendo che le
grida della bambina richiamasse
ro gente, e per sfogar la sua rab
bia nel vedersi opposta disperata
resistenza, denudato novamente
il pugnale, si precipitava per fe
rir la bambina. Ma la madre, po
stasi come scudo davanti alla
fanciulla, ricevette nel seno il
colpo di pugnale destinato alla fi
glia.
Vibrato il colpo. Nunzio Pisa
ni, raccolti in fretta i tesori ru
bati, si diede a precipitosa fuga.
Albina, ricevuto il colpo mor
tale in mezzo al petto, gettò un
grido straziante e cadde supina
versando un rivo di sangue dal
la ferita: il pugnale aveva tocca
to il polmone. Per mirabile istin
to di amor materno, nel cadere
ella schivò di piombare sulla
bambina, che giaceva a terra
piangendo ad alte grida. Raccol
ta poi tutta l'energia della vita
che le fuggiva, sollevò la bambi
na tra le braccia, la ripose sotto
la coperta, e si gettò ella stessa
sul letto per morir accanto a lei.
H colpe le aveva troncato la
parola; un rantolo soffocato le u
scì dal petto. Voleva chiamar soc
corso !.. Una speranza di salvez
za balenò nell'anima di quella
moribonda Si trascinò fino in
mezzo alla camera Voleva airi
vare alla terrazza pei- chiamar
gente. Ma le forze le vennero
meno, e l'infelice cadde appiè del
letto. Il sangue, deviato dal suo
corso, le usciva ora in gran copia
dalla bocca.
Poco dopo, la sventurata Albi
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Numero 11
na esalava l'anima, raccoman
dando a Dio la figlioletta.
La bambina intanto si era ad
dormentata.
Le quattro dopo mezzanotte
battevano all'orologio.
Beatrice si ridastò, dischiuse
gli occhi, si voltò dalla parte do
ve soleva dormir la madre, e fu
sorpresa di non trovarla. La
chiamò due o tre volte, poi si se
dè sul letto e si pose a piangere
chiamando or l'uno or l'altro i
suoi genitori con quanta forza a
veva. E poiché il silenzio rispon
deva al suo pianto, ella piangeva
più fortemente e chiamava la
madre; indi taceva per qualche
istante aspettando risposta, e poi
ricominciava con più forza; con
le mani si stropicciava gli occhi
infiammati di lacrime, e per mo
to infantile si strappava i bei ric
cioletti di capelli.
Di repente i suoi occhi furono
colpiti da una larga macchia ros
sa sulla coperta: ella vi portò la
mano e la ritrasse. Guardò la sua
camicia tutta intrisa di sangue,
poiché la madre l'aveva abbrac
ciata per riporla sul letto, e non
comprendendo, ma quasi per i
stinto, si scostò dal luogo dov'e
ra, e andò a porsi nel luogo in cui
soleva giacere la madre.
La bambina non piangeva più,
ma guardava all'intorno con gli
occhi spalancati, non sapendo
rendersi ragione della situazione
in cui si trovava, e sembrandole
impossibile che la madre l'avesse
abbandonata! A un tratto gettò
un grido acutissimo, con le ma
nine si coprì il volto, e subito si
cacciò sotto la coperta con tutto
il capo, presa da un tremito con
vulso.
Dal balcone della terrazza, ri
masto aperto dopo la fuga del
l'assassino, era entrato nella ca-l
mera un patto nero, grosso, con
gli occhi di tigre!
E quel gratto, lambito che ebbe
il sangue che era rappreso sul
corpo di Albina, spiccò un salto
sul letto.
Beatrice tu presa da un pianto
convulso. Chiamava la madre, il
padre, tremava in tutte le mem
brici'ie, e si cacciava sotto la co
perta, raggomitolandosi come un
gomitolo di filo.
Quel gratto lambì l'altro sangue
sparso sul letto ; indi, per trovare
un poco di calore, si sdraiò a fian
co dell'infelice creatura che si
sentiva addosso quel mostro, e
più convulsamente piangeva.
Così, stemperatasi in lacrime
per oltre un'ora, ammutolì poi di
botto, e più non fu udita!
Oh, da quanto dolore doveva
essere straziata l'anima di Albi
na, se dolente si aggirava per
quella stanza ed era conscia del
l'abbandono e dello spavento del
la sua carissima figliuola!
Quel corpo di madre, quelle vi
scere che si squarciavano per e
strema tenerezza, giacevano
fredde e insensibili a terra, e la
voce della bambina che faceva
balzar d'immenso amore quel
cuor di madre, ora più non ì-isuo
nava alle sue orecchie.
Il gatto, desto di soprassalto
dal suo sonno selvaggio, spiccò
un balzo dal letto e fuggì per la
terrazza come un malfattore.
Pochi secondi scorsero in si
lenzio; indi fu bussato novamen
te e una voce d'uomo disse die
tro la porta queste parole:
Apri, Albina, son io.
Era il marchese Rionero, che,
di ritorno a Poi*tici in quel mo
mento, si affrettava a riabbrac
ciare la moglie e la figlia.
Non ottenendo risposta, alzò
vieppiù la voce, e con impazien
za battè all'uscio. Il silenzio della
tomba accoglieva soltanto le sue
parole.
Dopo aver chiamato invano la
moglie per circa un quarto d'ora,
risolvette di fracassare la porta,
dubitando di qualche disgrazia
La toppa saltò, la porta fu spa
lancata, e il marchese Rionero
entrò nella camera, seguito da un |
suo servo che l'aveva accompa
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gnato nel viaggio.
Confessiamo di non poter di
pingere quale fosse il suo orrore
nel vedere giacente a terra ed
immersa nel proprio sangue la ;
dilettissima moglie.
Vi sono dolori, che la penna
non può giungere a descrivere, e
che l'anima sola può comprende
re!
E quando, appressatosi al let
to, sollevò la coperta per ritro
vare la figlia, credette d'impazzi
re.
Quell' angioletta, pallida e
smunta come un cadavere, con le
membra rattrappite e strette co
me quelle d'un feto nell'utero,
non diede alcun segno di vita.
Quella bambina però non era
morta, ma una orrenda convul
sione nervosa le aveva strappata
la più cara parte della vita!
Beatrice era cieca!
PARTE TERZA
I.
Sorrento.
le piagge di Campagna amene,
pompa maggior della natura, e i colli
che vagheggia il Tirren, fertili e molli.
"TASSO."
Quando le torbide cure di una
vita affaccendata, o la increscio
sa monotonia di sollazzi, sempre
uguali e ripetuti, o il pungolo di
un dolore cagionato dalla perdita
di persona cara, o il bisogno di
allontanarsi da quell'incessante
rumore che, secondo la felice e
spressione d'uno scrittore fran
cese, si può dire il respiro della
capitale ; quando qualcuna di que
ste cagioni vi muove a cercare
fuori di Napoli un sollievo, anche
momentaneo, ai pensieri ango
sciosi che vi assalgono, ricorda
tevi che su quella penisola incan
tata, la quale si piega qual brac
cio sinistro sulle onde limpidissi
me del mare (poiché le spiagge
! di Posillipo ne formano il brac
cio destro), su quella penisola do
ve sorgono gli spettri di antica
città, giace un paese, sospiro di
gente lontana, delizia dei suoi a
bitatori, ricetto di soavi ricordi,
gloria del suolo partenopeo. Que
sto paese si chiama Sorrento.
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E quando vi avrò detto questo :
nome, non occorrerà aggiungere
altro per farvi comprendere co
me subito le amarezze dei vostro
cuore, o la stanchezza della vita
dilegueranno a quella brezza di
paradiso che Iddio si è compia
ciuto di soffiare su quella terra
dov'è eterna primavera.
Dal momento che montate in
carrozza per recarvi da Castel
lammare a Sorrento, comincia a
spiegarsi ai vostri occhi quella
lanterna magica di bellezze natu
rali che si chiama il Piano, e che
per lo spazio di circa dodici mi
glia continuerà a sorprendervi
con le sue centomila bellezze. Si
direbbe che la natura voglia
prendersi lo spasso di dimostrar
vi, l'uno dopo l'altro, con inces
sante varietà, i suoi scenari, ed
in certi momenti avrete bisogno
di richiamarvi in voi stessi per
non credere di esser sotto l'im
pero di un sogno incantevole, ov
vero per non suppone dipinte
quelle scene di tanta bellezza. Voi
percorrerete un cammino che
quasi si nasconde sotto i piedi
di bizzarri monti, ramo estremo
degli Appennini Campani, e che
segna, lungo il mare, tante cur
ve, quanti sono i capricci di quel
le rupi alpestri, che cadono a
piombo sul monte.
Ad ogni svoltata è uno spetta
colo nuovo; talvolta scorgi pro
fonde vallate piene di ombre e
di misteri, talora è un intrecciar
si di festoni e di ghirlande di
I pampini, ricca mercede dell'indu
stre agricoltore ; talora sono anti
chi bagni pensili che rispecchia
no le loro nicchie nelle onde az
zurrine ; talora, vedi gruppi di ca
se incastrate tre l'eterna verdu
ra degli oliveti e degli aranci, i
quali, leggermente incurvandosi
tra i bassi e ridenti poggi, discen
dono per vezzo fin sull'orlo del
mare ; talora vedi alcuni ruderi
romani che ricordano la grandez
za del più gran popolo del mon
do, e più lungi, l'umil capanna
del Villico; talora scorgi intere
città e villaggi, come Vico, Meta,
Massaquana, Ticciano, sparsi sul
declinare dei colli o sulla vetta di
una montagna: di botto ti si mo
stra nudo, orribile di selvaggia
grandezza, il precipizio di Sento- '
10, che spinge dal lido alla collina
la sua gigantesca cervice ; e tal
volta finalmente ogni scena ma
gnifica sparisce, e non ti lascia
esposti alla vista che un'alta
montagna sul capo e un immen
so mare ai piedi.
E quando, per due ore conti
nue, i tuoi occhi si saranno diva
gati su tanti e diversi quadri, ti
parrà che il cammino sia durato
un istante. L'entrata di Sorrento
è un presepe; l'anima si apre dol
cemente e si assuefà alla sempli
cità di quella campagna. Dumas
ha detto: "Sorrento è un bosco
di aranci," ed ha detto il vero,
poiché l'arancio è il re di quelle
verdeggianti colline ; le sue frut
ta si possono dir con ragione le
vere "poma degli Orti Esperidi,"
e i suoi fiori spandono in ogni
stagione e su tutto il paese il bal
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